Il libro di Luca Ricolfi "La società signorile di massa"

 

Uscito nel 2019 questo libro di Ricolfi con gli anni diventa sempre più attuale. L'analisi di Ricolfi è rivolta quasi prevalentemente alla società italiana, anche se il concetto operativo da lui usato e cioè quello della "società signorile di massa", può applicarsi ad altre società e nazioni. L'autore è piuttosto rigoroso, le sue tesi possono non essere condivise ma devono essere lette con attenzione, dato che sono supportate da statistiche e riferimenti sempre molto attinenti. Già nell'introduzione troviamo una sorta di sintesi della sua analisi socio-economica, che in effetti può essere considerata in controtendenza rispetto a molte altre. Infatti si dichiara subito che "... l'Italia non è una società del benessere afflitta da alcune imperfezioni... ma è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale". Appunto: la società signorile di massa, così definita perchè, pur di impianto capitalistico, presenta innesti tipici di elementi feudali e precapitalistici. Quindi una società che pur essendo opulenta, ha un'economia che non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano (l'autore ribadisce che tale tesi non ha nulla di morale o voglia esprimere giudizi di valore). Analiticamente, perchè ricorra una società così definita, è necessario che ci siano 3 condizioni:

a) il numero dei cittadini che non lavorano supera quello dei cittadini che lavorano;

b) l'accesso ai consumi opulenti da parte di quelli che non lavorano è di massa e non d'élite;

c) il sovraprodotto non cresce ovvero l'economia è in stagnazione o addirittura in decrescita. 

Fatta questa premessa metodologica, Ricolfi ci porta subito nel vivo. Per lui la struttura della società italiana si divide statisticamente (dai 15 anni in poi) in un 52%  di gente che non lavora e quasi il 40% di gente che lavora, cui si aggiungono circa un 8% di stranieri. Ebbene, nei primi due segmenti costituiti da cittadini italiani, il 94% non si trova nelle condizioni di povertà assoluta, mentre nell'ultimo segmento (stranieri) tale percentuale cresce al 33%. Curiosità: la prevalenza di non lavoratori è cosa di lunga data nella storia d'Italia. Il 'sorpasso' avviene addirittura nel 1964, anni paradossalmente di boom economico. Usando questi dati iniziano i confronti con gli altri paesi, per far emergere l'anomalia italiana. Infatti solo la Grecia ha un tasso d'occupazione totale inferiore al 50%. Non solo, in nessuna società avanzata esiste uno scarto così ampio tra nativi e stranieri come tasso d'occupazione, poichè ben il 60% circa di stranieri lavorano e questo da luogo a caratteristiche addirittura paraschiavistiche della società italiana, tipiche di una società signorile.

C'è adesso da definire cosa si intende per consumo opulento. Il termine è ambiguo. Ricolfi ricorre allora ad un'elaborazione statistica per evitare giudizi privi di valenza operativa e basati su argomenti soggettivi. In sostanza, la condizione 'opulenta' è data, nella popolazione nativa, quando il surplus, ossia il consumo che eccede bisogni essenziali, supera il triplo del livello di sussistenza, a sua volta definito da indicatori statistici ufficiali (pari al momento della pubblicazione a circa 12.000 euro l'anno per una famiglia di 2 persone). Si individuano poi 3 beni pregiati che, data l'evoluzione consumistica, oggi possono essere considerati pregiati e cioè casa di proprietà, automobile e vacanze lunghe. Beni non individuati a caso, dato che sono beni che superano largamente l'importo di una mensilità di reddito. A partire dagli anni '70 questi beni sono stati acquisiti in percentuali che, nei primi due, sono vicine all'80% mentre le vacanze stanno al 65% dei nativi italiani. Quindi più della metà degli italiani godono di questi 3 beni, senza con questo voler dire che siano signorili secondo una definizione classica ma alludendo al fatto che ormai l'accesso a tali beni è alla portata della maggioranza della popolazione italiana. La vera questione però è legata al rapporto tra quest'accesso e la percentuale stranamente bassa della popolazione occupata. In altre parole, siamo di fronte all'appropriazione di una parte significativa del surplus prodotto dall'economia da parte di chi non lavora e questo è, a tutti gli effetti, un segno di una società signorile. 

A questo punto non è facile riassumere i passi seguenti dell'analisi di Ricolfi che sono sempre basati su fattori esplicativi socio-economici ma suffragati da riferimenti statistici che ne comprovano la bontà della scelta. Diciamo che ne viene fuori un quadro un tantino differente da quello che in genere è presente nel cosiddetto mainstream. Del resto l'autore ci ha abituato a queste sorprese. Per esempio, dati alla mano, si scopre che oggi una famiglia media ha un potere d'acquisto quasi quadruplicato rispetto al 1951  e che questo progresso si è quasi tutto registrato nella fase storica della prima Repubblica. Oggi la ricchezza posseduta dalla famiglia italiana si pone mediamente a circa 400.000 euro. Nè la lunga crisi degli anni 2000 ha scalfito più di tanto la cosa, dato che seppure il potere d'acquisto del reddito è praticamente fermo a 30 anni fa, il valore reale della ricchezza si colloca ad un +20%  rispetto ai primi anni novanta. Non solo, abbiamo assistito ad uno spostamento di produzione della ricchezza, che è sempre più fornita da case e risorse finanziarie e meno dai redditi da lavoro. Seguono altre disamine sulla presenza delle persone NEET (riferibili al fenomeno della disoccupazione volontaria) e che è paurosamente alta in Italia, oltre il 30% tra i 25 e 29 anni contro percentuali molto più basse in ambito UE. 

Fondamentale poi la disamina accurata per appurare la consistenza numerica della realtà paraschiavistica individuabile in 4 segmenti, operanti in diversi settori. Ovvero: lavoratori stagionali ipersfruttati (stimabili in 200.000 unità), prostituzione non volontaria (circa 50.000) e le cosiddette persone di servizio, le più numerose con circa 865.000 soggetti regolari cui si aggiungerebbero addirittura più di un milione di lavoratori in nero. Poi ci sono i dipendenti in nero addetti a mansioni pesanti e usuranti stimabili in circa 450.000 unità. Una somma di quasi 3 mln di persone, anche se  Ricolfi fra le righe fa capire che, pur usando dati statistici ufficiali, tali cifre sono ampiamente opinabili ma forse in difetto! Ma non è finita qui. Accanto a questi segmenti ce ne sono altri, definibili border line. Il primo è collegato al mondo della droga, con un aumento esponenziale dei consumatori pari a circa 8 mln di consumatori abituali di cui ben 2 mln per droghe pesanti, cui si aggiungono i consumatori occasionali. Da qui lo spaccio, che coinvolge nella fase finale molti stranieri, stimabili prudentemente sulle 100.000 unità. Il secondo è il mondo della gig economy, economia dei lavoretti (di cui la consegna del cibo e altro a domicilio è il più conosciuto). Infine c'è il settore in espansione della esternalizzazione dei servizi (pulizia, assistenza, sorveglianza) a cui anche la P.A. ricorre spesso. 

Dei molti punti toccati nei capitoli successivi, sono da segnalare alcune osservazioni particolarmente interessanti:

- un tentativo di fornire una dimensione effettiva della povertà in Italia, argomento come noto ricco di interesse a livello mediatico. Ricolfi mette in chiaro che una stima della povertà in Italia non può non essere correlata alla presenza di quel settore paraschiavistico già esaminato. Allora vedremo che circa un terzo del fenomeno povertà è dovuto alla popolazione straniera, per cui la stima ISTAT va ridimensionata per le sole famiglie italiane al 5% circa. Le stime come si vede sono ballerine. Ricolfi propende per una ipotesi per cui la vera stima si pone intermedia tra i dati ISTAT e quelli ricavabili dal reddito di cittadinanza. In sostanza, avremmo un valore pari a quasi il 95% delle famiglie italiane che non sono in condizioni di povertà assoluta e qui s'annida ovviamente il consumo signorile di massa senza che questo escluda il fatto che una parte della popolazione ne sia esclusa. Come si vede la tesi del libro è un pò in contrasto con la vulgata mediatica. 

- la fenomenologia del consumo signorile, ancorato al food (tutto quello che dispensa cibo e l'enorme proliferazione di locali dedicati ad esso). Segue il fitness e cura di sé nonché l'uso spasmodico del cellulare (ormai smartphone) dove l'Italia primeggia a livello mondiale, seconda solo ad Hong Kong e Corea del sud. Da cui consegue il tempo passato su internet,  pari ad una media di 6 ore al giorno e dove per il 90% l'uso è prettamente ludico e non lavorativo. Poi il consumo di droghe che è in continua crescita ma mai come quello del gioco d'azzardo. Siamo un vero e proprio popolo di giocatori che permette al fatturato del gioco di crescere a ritmi del 20% annui con una spesa complessiva annua che s'aggira sui 110 mld, cioè quanto si spende più o meno per tutto il SSN. Una tabella riepilogativa a pag. 126 del libro mette bene in risalto la profilazione della società italiana come "signorile di massa".

- la teoria del doppio legame (usata in psicologia) che si basa su due messaggi contrastanti fra loro, viene usata per spiegare come mai i media spesso non riescono a percepire quale realtà italiana sia vera: quella di una società impoverita o di una società che mantiene livelli di consumo notevoli. Ebbene, Ricolfi, ricorrendo a questo concetto ci spiega che entrambe sono vere o meglio coesistono e sono due racconti di una stessa realtà.

- La disamina di un fattore molto importante per capire la società signorile di massa come si manifesta in Italia e cioè l'eredità attesa, ovvero la quantità di patrimonio che un giovane può aspettarsi di ereditare al momento del decesso dei familiari. Dato il peso sulla popolazione degli anziani, dei giovani e quello del patrimonio familiare a disposizione, se ne ricava un indice per l'eredità attesa che pone l'Italia sull'alto del podio a livello europeo e sorprendentemente correla in tutti i paesi il numero dei NEET all'indice stesso. Il flusso successorio (la frazione di ricchezza complessiva che passa da una generazione all'altra) è difficile quantificarlo ma Ricolfi azzarda un'ipotesi pari a circa 250 mld annui cioè un 14% del PIL (e qui siamo vicino a quanto avviene in Francia e Germania secondo dati forniti da Piketty).

Infine va segnalata la risposta al quesito spontaneo che sorge: può una società di massa signorile mantenersi al suo livello di benessere raggiunto? La risposta e sì, a patto che la sua produttività cresca ad un ritmo non inferiore a quello dei paesi con cui si misura sui mercati globalmente intesi. Purtroppo Ricolfi è pessimista, non tanto perchè in Italia ci sia un debito pubblico enorme ma per la sua dinamica di produttività del lavoro, rimasta ferma per più di 20 anni rispetto ad altre economie concorrenti. Il perchè ciò avvenga, nonostante gli indubbi progressi tecnologici e innovativi introdotti, ha una risposta per l'autore: è la ipernormazione che frena tutto questo. Cioè è l'eccesso dei centri decisionali e degli adempimenti burocratici che fa aumentare i costi di produzione. La sua ipotesi si basa sulla tesi dell'economista Schlitzer che imputa in larga parte questo blocco della produttività italiana al decentramento amministrativo del 1997 (leggi Bassanini) e alla riforma del titolo V della Costituzione, cui s'aggiungera l'obbligo di incorporare nelle leggi la sempre più farraginosa normativa UE. Con la creazione delle 'materie concorrenti' su cui hanno voce ben 5 strutture paritetiche a livello di enti locali, la burocrazia è aumentata di peso. E infatti esiste una correlazione temporale non casuale tra introduzione di questi meccanismi e la stagnazione della nostra produttività. Curioso che anche il Belgio conferma tale correlazione, subendo lo stesso processo di stagnazione della produttività da quando è passato ad un assetto decentrato federale dello Stato. Ricolfi quindi è pessimista per il futuro. Nè varranno le ipotesi futuristiche di società senza lavoro magari sussidiate attraverso basic income (reddito di base). L'analisi del trend economico mondiale dopo la crisi mostra che i tassi d'occupazione sono cresciuti e solo nei paesi europei è diminuito, confermando la correlazione che a paese ricco corrisponda maggiore lavoro e non viceversa. Quindi, non vale l'opinione che la prosperità liberi dal lavoro e l'Italia, con i suoi trend negativi sui fattori chiave (produttività e occupazione), non sembra avere un futuro roseo davanti...

E' opportuno fermarsi qui nella sintesi delle analisi di Ricolfi dato che una sezione non piccola del libro è dedicata ad osservazioni definibili più sociologiche e con risvolti psicosociali. Per entrare pienamente in questa analisi è necessario leggere il libro che, peraltro, scorre molto bene da un punto di vista della leggibilità, considerando che stiamo parlando di un saggio socio-economico.