Huxley in un mondo nuovo
Huxley è stato uno di quei personaggi che se non fosse nato bisognava inventarlo. Basta leggere la sua biografia e si capisce di essere davanti ad un incredibile tizio eclettico e alquanto strambo, in senso positivo s'intende.
Il libro in questione sintetizza in modo strabiliante e poco fantascientifico nonostante le apparenze un problema antico delle civilità: quello del condizionamento. E' attualissimo, nonostante sia stato scritto nel 1932. Leggere la suddivisione dell'embrione in gemelli (sic!!) e la realtà virtuale preconizzata nel cinema odoroso.
Su questi aspetti, però non mi soffermo. E' invece inquietante l'aspetto del condizionamento. Infatti: i personaggi nel mondo nuovo non conoscono dolore e agiscono nella felicità perché condizionati fin da piccoli a questo. E' giusto? Se la felicità è da considerarsi un valore positivo (difficile sostenere il contrario) è giusto "condizionare" alla felicità?
Inoltre, nasce anche un'altra questione: non è facile rispondere che la "vera" felicità è quella liberamente ricercata dall'individuo. Infatti, la ricerca della felicità individuale, se lasciata al singolo arbitrio, spesso sfocia in una ricerca che mette a repentaglio le altrui felicità, dato che l'individuo è disposto a ricercare la propria felicità anche a discapito del prossimo. Ne discende, quindi, che è "conveniente" condizionare dall'alto una felicità diffusa e controllata, "condizionata" appunto. La felicità è insomma un bene collettivo e va gestita?
Non solo, se la felicità va raggiunta con metodi collettivi di condizionamento ed essa è portatrice di valori positivi, tali condizionamenti, strumento per raggiungere lo scopo positivo, divengono anch'essi valori positivi. Il condizionamento in tal caso è un vettore di felicità positivo e l'individuo se lasciato a se stesso sviluppa invece vettori negativi.