Dostoevskij scrive le memorie dal carcere
Riguardo a come si scrive esattamente il nome di Dostoevskij e anche all'esatta traduzione del libro rimando la disquisizione. In questa sede interessa sottolineare che siamo di fronte ad un autore tra i grandi della letteratura, la cui lettura è inevitabile nel corso di una vita. Personalmente feci una 'full-immersion' nei romanzi del Russo quando ero adolescente ma devo dire che fu un'esperienza che non auguro a nessuno. Questo romanzo-diario, invece l'ho letto da 'grande'.
Per la trama e la genesi del libro rimando QUI.
Pensieri e riflessioni originate da questa frase: "ecco che io mi sforzo ora di classificare tutto il nostro reclusorio per categorie: ma è questo possibile? La realtà è infinitamente multiforme, in confronto con tutte le deduzioni del pensiero astratto, anche con le più sottili e non tollera nette e vistose distinzioni. La realtà tende allo spezzettamento..."
In nuce, un problema vecchio quanto il pensiero. L'autore propende per una tesi dell'impossibilità di dedurre (o indurre, non cambia il problema) tutta una realtà a partire dalle categorie concettuali che tendono a ricomprenderla. Quest'aspetto non è irrilevante, basti pensare al fatto che molti algoritmi presenti nella AI di cui oggi si discute tanto, servono proprio a categorizzare la realtà. Si noti che D. fa riferimento al pensiero astratto e quindi al più potente strumento dato per la comprensione della realtà, in quanto ricomprende in sé anche tutte le costruzioni mentali oltre a quelle puramente individuali, ovvero teorie scientifiche, teoremi matematici, modelli interpretativi, ecc. Eppure, la realtà è qualcos'altro ancora, oltre tutto questo. Si, ma che cosa? Non è un qualcosa: è una infinita varietà di altre cose. Se fosse un qualcosa sarebbe percepibile dal pensiero astratto. E' invece un infinito qualcosa.
Si ricordi il bel racconto di Borges (Funes, cfr. la voce riportata in questo sito) in cui una persona non parla delle cose intorno a sé attraverso concetti che le rappresentano ma attraverso la loro intrinseca singolarità non riconducibile a categorie che le rappresentano. Cioè: non dico "le foglie di un albero" ma nomino 'tutte' (sic!) le foglie di un albero per cui ogni foglia è una realtà a sé. Questo ragionamento sembra far pensare che il pensiero astratto non è altro che uno strumento teso a semplificare una realtà, altrimenti ingestibile e credo che sia collegato con una questione di necessità comunicativa tra umani. Infatti, per gestire la realtà è necessario semplificarla, ridurla a categorie.
Essa resta però altro, anche se la sua riduzione ha una valenza esplicativa enorme (perché probabilmente ci permette di comunicare un codice semplificato della realtà stessa). Nasce la questione del legame tra concetto e idea con la realtà. Platonicamente potremmo dire che esistono solo le idee e non la realtà. Aristotelicamente potremmo dire che le idee sono semplici costrutti usati per determinare una realtà. Tuttavia, rifacendoci al pensiero orientale, potremmo anche dire che la realtà non esiste come non esistono nemmeno le idee (negazione alla Nagarjuna) e tutto è nulla.
Potremmo allora dire che se una realtà è infinitamente multiforme, alla fine non esiste come realtà ma come una specie di singolo fotogramma di un film di cui sarà impossibile la visione totale. Potremmo infine accennare al fatto che le infinità realtà attengono a tutti gli stati quantici possibili (teoria degli universi paralleli) ma che è dato conoscere un solo stato di realtà alla volta.